tassazione transnazionale del risparmio

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leggefiscofinanza
00giovedì 6 gennaio 2005 01:16
La tassazione transnazionale del risparmio nel contesto di integrazione economica e monetaria europea

La tassazione dei flussi transnazionali di risparmio è tra le questioni di politica tributaria di maggior rilievo in un contesto di integrazione economica e monetaria. Con la realizzazione nel 2002 della terza fase dell’Unione Monetaria Europea, la mobilità dei flussi finanziari è destinata ad aumentare ulteriormente per effetto dell’introduzione della moneta unica che, eliminando il rischio di cambio (e i relativi costi), rende immediatamente confrontabili i rendimenti dei titoli ed incentiva lo spostamento dei capitali finanziari verso impieghi più redditizi[1]. L’elevata mobilità dei capitali verso usi più produttivi, sebbene desiderabile sotto il profilo dell’efficienza allocativa, rende estremamente complessa per i governi nazionali la tassazione dei redditi che derivano dalle attività finanziarie, dato che l’incidenza dei “costi fiscali[2]” assume per i risparmiatori e per gli operatori professionali un rilievo determinante nelle scelte di investimento all’interno di un mercato unico europeo[3].

Una delle maggiori incongruenze della situazione europea, deriva dalla sopravvivenza della qualifica, in ogni Paese membro, di “non residente” a fini tributari per i contribuenti di altri Paesi UE. Realizzato il mercato unico, e concessa la facoltà per i cittadini di ogni Stato membro dell’UE di investire liberamente in qualunque parte del territorio dell’Unione, ogni discriminazione in base alla residenza non trova più giustificazione: il favor accordato dagli ordinamenti europei all’investitore non residente, che si traduce spesso in un’esenzione (di diritto e di fatto), trae le sue origini nei tempi in cui si incoraggiavano gli afflussi e si vietavano (o, in ogni modo, rendevano molto difficili) i deflussi di capitale. Il suo permanere in regime di libertà dei movimenti di capitale favorisce, pertanto, una concorrenza fiscale tra gli Stati, che ostacola la realizzazione di un mercato unico efficiente[4]. In particolare, se i risparmiatori definiscono le loro decisioni in funzione della possibilità di evitare le imposte, invece che alla luce di un confronto tra le alternative di investimento basato sulla loro convenienza intrinseca, le scelte d’investimento risultano distorte. Questa situazione non consente alle istituzioni finanziarie, ai fondi di investimento e agli altri operatori di mercato di competere su basi di parità.

In tale ambito, la soluzione prima facie più lineare sarebbe stata di introdurre un’imposta unica europea: se unico è il mercato, unica è la moneta utilizzata per le transazioni, altrettanto unitario deve essere il trattamento fiscale al fine di evitare ingiustificate distorsioni e perdite di efficienza. E’ stato tuttavia notato che, anche qualora vi fosse una situazione di completa uniformità delle aliquote degli ordinamenti tributari dei Paesi che partecipano alla liberalizzazione, non necessariamente si realizzerebbe la piena neutralità rispetto alle scelte di investimento: permarrebbero comunque operazioni di aggiustamento dei mercati nazionali tali da provocare effetti di “traslazione obliqua” delle imposte tra i mercati al fine di parificare il tasso di rendimento netto delle attività finanziarie[5].

Appurato che, nonostante gli ostacoli, la moneta unica è stata realizzata[6], maggiori difficoltà presenta la configurazione di un sistema impositivo unico europeo[7]. Se, infatti, le scelte di politica monetaria sono “neutrali”, nel senso che esse non sono il frutto di scelte di un organo politicamente rappresentativo ma tecnico (le Banche centrali), i sistemi impositivi sono, invece, il risultato di precise scelte di discrezionalità politica. La politica monetaria non è equiparabile con quella fiscale, essendo quest’ultima sensibilmente più complessa[8]. Il principale ostacolo alla realizzazione di un sistema coordinato di tassazione delle attività finanziarie riguarda, dunque, la sovranità fiscale dei singoli Stati, a cui sono difficilmente disposti a rinunciare, dato che la leva fiscale, in seguito all’eliminazione della fluttuazione dei cambi, rimane l’unico strumento in grado di garantire competitività economica in un contesto internazionale. Per questo motivo, i tentativi di armonizzazione fiscale europea che si sono avuti dall’Atto Unico Europeo del 1986, hanno avuto risvolti negativi[9].

Una soluzione alternativa, poteva essere la stipulazione di un trattato multilaterale europeo, che avrebbe, in assenza di armonizzazione eliminato le differenze artificiali create dalla rete di trattati bilaterali intercorrente attualmente tra gli Stati europei[10]. Ai trattati bilaterali si aggiungono, come ulteriore elemento di distorsione la diversità di trattamento fiscale del risparmio all’interno dei singoli Stati membri.

Un secondo problema, riguardava l’idoneità del coordinamento esplicito (mediante l’adozione di specifica direttiva) dei sistemi impositivi alla realizzazione dell’efficiente allocazione del capitale. L’esperienza statunitense, in tema di concorrenza fiscale tra Stati membri di un’unione economica e monetaria, potrebbe essere un precedente per dare una risposta al riguardo, essendo il caso degli USA un esempio di integrazione economica in assenza di coordinamento fiscale. Un primo risultato, fornito dall’analisi svolta sull’argomento da Tanzi e Zee[11], è che anche qualora i singoli Stati rimangano titolari del potere di imporre autonomamente il livello delle aliquote, non possono nel medio periodo ignorare le scelte dei Paesi confinanti, se non altro per evitare perdite di gettito. E’ una conseguenza inevitabile, derivante dai comportamenti dei contribuenti che trasferiscono le proprie attività nello Stato fiscalmente meno oneroso, attraverso operazioni elusive e arbitraggi fiscali[12]. Nel lungo periodo gli Stati membri degli USA hanno comunque raggiunto un livello di “armonizzazione” (di fatto) non dissimile da quello che si sarebbe determinato con un esplicito coordinamento dei sistemi fiscali, vale a dire senza perdite di efficienza. Diversa tuttavia, è la situazione dell’UE: la mancanza di un sistema fiscale federale come quello USA, le carenze informative tra le amministrazioni dei paesi, le differenze linguistiche, non permettono, secondo gli autori, il realizzarsi di un’efficiente allocazione delle risorse come conseguenza della concorrenza fiscale. In tale prospettiva, l’esigenza di un intervento di armonizzazione tra i Paesi UE si rende opportuno[13] non solo con riferimento alla parificazione delle aliquote fiscali ma anche per realizzare un adeguato scambio di informazioni tra le Amministrazioni dei singoli Paesi[14].

La presenza di una piena armonizzazione tra i Paesi UE, non eliminerebbe, comunque, ogni problema: anche se i differenziali di regime fiscale fossero così normalizzati all’interno dell’Unione, resterebbe il problema dei differenziali esterni, extracomunitari, che potrebbe essere superato (in parte) solo con l’adozione di scelte uniformi formalizzate in un modello di trattato valido anche verso i paesi terzi[15]. In tal senso, originale è la soluzione prospettata da Tanzi: l’istituzione di una “International Tax Organization”, un’organizzazione che a livello mondiale supervisioni o cerchi di influenzare gli sviluppi fiscali aventi implicazioni transnazionali, fino a creare un codice fiscale mondiale e un foro mondiale per un arbitrato fiscale[16]. In verità, l’OCSE svolge già tale attività, attraverso la promozione di iniziative finalizzate a ridurre le divergenze impositive (dannose) esistenti tra gli Stati[17].

Rilevante è che la recente direttiva sul risparmio del 2001 accoglie in larga parte le soluzioni dottrinali in precedenza analizzate: il sistema dello scambio delle informazioni, e l’adozione di misure fiscali “equivalenti” a quelle europee da parte dei principali paesi finanziari extracomunitari. Essa, tuttavia, non elimina del tutto la concorrenza fiscale dannosa all’interno dell’UE. Il suo ambito di applicazione, è limitato, infatti, ai soli interessi transfrontalieri. L’esclusione dei capital gains e dei dividendi, non fa che spostare, in tal senso, i termini della competizione in un altro terreno. In ogni modo, la direttiva, entrata in vigore il 1° gennaio 2004, rappresenta l’ importante risultato di un percorso lungo e difficoltoso, che ha visto l’avvicendamento di altre due proposte comunitarie (e altrettanti modelli impositivi) dall’esito non positivo.



La proposta “Scrivener” del 1989: la ritenuta minima armonizzata.

Un primo tentativo di armonizzazione fiscale è la proposta di direttiva europea sulla tassazione del risparmio presentata nel 1989, nota come “proposta Scrivener”[18], che prevedeva l’applicazione di una ritenuta minima comune alla fonte (anche detta “armonizzata”), da applicarsi a tutti i soggetti residenti di Stati dell’Unione, con un’aliquota del 15%. La ritenuta poteva essere considerata da ciascuno Stato membro a titolo definitivo o d’acconto. Circa l’accertamento, era previsto il rispetto delle norme nazionali sul segreto bancario: si prevedeva solo un rafforzamento della cooperazione amministrativa, ove possibile. Era data inoltre la facoltà di esentare i residenti di Paesi terzi e le eurobbligazioni.

Da un punto di vista sistematico, la proposta configurava un regime di ritenute generalizzato su tutti i residenti europei. La ritenuta sarebbe stata prelevata dal debitore (emittente), che avrebbe dovuto distinguere tra i percettori di interessi, quelli soggetti (individui residenti negli Stati della Comunità) e quelli esenti (non residenti). La facoltà di considerare la ritenuta come definitiva o d’acconto faceva salva la libertà per ciascuno Stato membro di decidere il regime di tassazione definitiva sui propri residenti: o la cedolare secca al livello armonizzato del 15%, oppure, riconoscendo la ritenuta “armonizzata” come acconto, una cedolare più elevata, o il regime di tassazione personale progressivo. Data però l’assenza di un’efficace collaborazione amministrativa (scambio d’informazioni), sarebbero mancati strumenti validi di accertamento e nei fatti il sistema avrebbe teso verso un regime generalizzato di ritenuta definitiva al 15%, per gli interessi transfrontalieri.

Non è immediato inquadrare concettualmente questo regime: in assenza di esenzioni, avrebbe teso a una sorta di CIN (Capital Import Neutrality) sui redditi prodotti in Europa e percepiti dai residenti in altri Stati europei. Ogni Stato però, avrebbe potuto continuare a tassare con il regime domestico gli interessi prodotti al suo interno da suoi residenti e percepiti da persone fisiche residenti. Non si sarebbe trattato quindi di una vera e propria CIN, ma di un ibrido, che, sia pure con le incoerenze di un sistema parziale, avrebbe comunque introdotto a livello europeo una tassazione effettiva degli interessi transfrontalieri compatibile con gli incentivi alla concorrenza fiscale che si determinano in mercati finanziari integrati. Avrebbe anche precostituito, in assenza di scambio d’informazioni, una soluzione di convergenza per le legislazioni nazionali: quella delle ritenute alla fonte definitive.

Questa proposta di direttiva non ha avuto seguito. Da un lato, alcuni Stati membri la ritenevano insufficiente sotto il profilo dell’accertamento, bastando a loro avviso l’introduzione un adeguato sistema di scambio d’informazioni per superare il segreto bancario, senza necessità di imporre il livello delle ritenute. Gli Stati che adottavano il segreto bancario[19] erano evidentemente contrari a questa soluzione. Inoltre, pur non essendo elevato il livello del 15% previsto per la ritenuta, erano possibili fughe di capitali verso i Paesi terzi in assenza di un coordinamento con questi ultimi. Altro ostacolo era, inoltre, la norma secondo cui l’approvazione di direttive comunitarie in materia di imposizione diretta richiede l’assenso di tutti gli Stati membri[20].



La proposta del 1998: il modello della “coesistenza”.

La prospettiva dell’attuazione dell’Unione Monetaria Europea a metà degli anni ’90 e l’affermarsi della convinzione delle conseguenze negative in termini di efficienza e gettito[21] della competizione fiscale, ha spinto i Governi dei Paesi membri dell’Unione a riaprire la discussione sulla tassazione internazionale del risparmio. Contestualmente, si assisteva a livello europeo ad un’apertura verso il modello della tassazione sostitutiva alla fonte dei redditi di capitale, con il progressivo abbandono del dogma della tassazione “comprehensive” legato al principio della residenza, ritenuto non più adeguato ad un contesto di globalizzazione finanziaria. In tal senso, il 1° dicembre 1997, sotto la presidenza lussemburghese, il Consiglio ECOFIN[22] ha approvato le linee fondamentali del cosiddetto “pacchetto fiscale Monti” nel quale figurava una nuova proposta di direttiva sulla tassazione del risparmio, elaborata nella sua versione definitiva nel 1998[23].

Notevoli sono le differenze di questa seconda proposta rispetto a quella del 1989. Innanzitutto essa si inquadra in un contesto più ampio, che coinvolge altri aspetti dell’imposizione diretta: il codice di condotta, per contrastare la concorrenza fiscale dannosa nel campo della tassazione delle imprese, e la rimozione delle ritenute su interessi e royalties tra società collegate. L’iniziativa è quindi inserita in una strategia ad ampio spettro, chiaramente indirizzata a migliorare il funzionamento del Mercato Unico[24], nella direzione di un coordinamento dei sistemi fiscali europei, resosi ancor più necessario in seguito all’adozione della moneta unica.

Il principale elemento di differenza rispetto alla direttiva del 1989 è che mentre quella tendeva verso un’armonizzazione e coinvolgeva nel sistema della ritenuta tutti i redditi prodotti, anche quelli destinati a residenti nello stesso Stato, questa, invece, è rivolta solamente agli interessi transfrontalieri. L’obiettivo è, in sostanza, di coordinare a livello europeo la tassazione dei soli interessi transfrontalieri, senza coinvolgere gli interessi “domestici” (cioè quelli prodotti e percepiti da residenti), al fine di consentire la coesistenza dei vari regimi nazionali, senza imporre, esplicitamente o di fatto, la prevalenza di un regime sull’altro. Per raggiungere questo obiettivo, la nuova direttiva, nella sua versione originaria, prevedeva la possibilità per tutti gli Stati membri di scegliere alternativamente ed esclusivamente tra l’applicazione di una ritenuta minima comune alla fonte, in misura non inferiore al 20%, e la comunicazione obbligatoria all’Autorità finanziaria dello Stato di residenza del percettore da parte dell’Autorità dello Stato in cui sono pagati gli interessi.

Preso atto delle insuperabili divergenze esistenti all’interno dell’Europa, si è adottato, pertanto, un approccio pragmatico, al fine di realizzare un equilibrio degli interessi fra i vari Paesi attraverso il riconoscimento della possibilità di scelta del regime maggiormente compatibile con l’ordinamento interno dei singoli Stati[25]. Il risultato di questa nuova impostazione è l’abbandono dell’idea di “un’armonizzazione forzata”, in favore della più agevole strada del coordinamento dei sistemi nazionali, nel rispetto delle scelte dei singoli ordinamenti, senza trascurare l’esigenza di contrastare la concorrenza fiscale attraverso prescrizioni minimali[26].

Il sistema della coesistenza tra ritenuta alla fonte e scambio d’informazioni intendeva in primo luogo assicurare che i residenti europei fossero comunque tassati su tutto il loro risparmio, indipendentemente dal luogo di detenzione. Questo era assicurato o dall’informazione che lo Stato di residenza avrebbe ricevuto dagli altri Stati o dalla ritenuta alla fonte applicata dagli Stati che non avrebbero fornito informazioni[27].

Altro punto importante è che la direttiva poneva gli adempimenti fiscali (raccolta delle informazioni, calcolo e versamento della ritenuta) a carico dell’agente pagatore (così come definito dalla direttiva)[28], non dell’emittente. Questa è un’innovazione significativa rispetto alla precedente proposta, in quanto in tal modo si tiene conto della realtà operativa dei mercati finanziari. Inoltre, il principio dell’agente pagatore permette di assoggettare alla ritenuta tutti gli interessi percepiti da residenti UE, compresi quelli derivanti da investimenti finanziari su emittenti non comunitari.

Era previsto, infine, un coordinamento con altri Stati terzi per l’adozione da parte loro di “misure equivalenti”. Il fatto che i mercati finanziari sono ormai globalizzati trova riconoscimento nell’esplicita considerazione che la soluzione “europea” deve essere coerente con una possibile soluzione “mondiale”.

Dal punto di vista dogmatico, il sistema tendeva abbastanza esplicitamente a adottare il principio della residenza. Non avrebbe però garantito in modo assoluto la CEN (Capital Export Neutrality) perché su una parte dei redditi, cioè quella proveniente dai Paesi con ritenuta alla fonte, il risparmiatore avrebbe subito una tassazione diversa da quella cui sarebbe stato soggetto secondo le regole del suo Stato di residenza.

Anche questo progetto, come il precedente, non ha avuto seguito. Il livello della ritenuta minima divenne, infatti, subito elemento di contesa: gli Stati favorevoli allo scambio di informazioni lo ritenevano troppo basso; gli Stati che intendevano applicare la ritenuta alla fonte, troppo alto. Decisiva, a questo riguardo, sarebbe stata l’adozione al progetto degli Stati terzi, con l’impegno a adottare “misure equivalenti”. In loro assenza, il sistema rischiava di innescare forti incentivi all’esodo di capitali[29]. Anche la destinazione del gettito delle ritenute divenne un argomento di vivace confronto[30].

Determinante, per il fallimento della direttiva, è stata però la salda opposizione del Regno Unito. In primo luogo, per la mancata esenzione degli eurobonds, che, a detta del governo inglese, avrebbe messo a rischio il futuro della piazza finanziaria londinese[31]. Inoltre, lo stesso governo riteneva possibili turbative del mercato per l’esistenza di clausole di gross-up[32] su molte emissioni dei titoli in circolazione. In realtà, le obiezioni del Regno Unito riguardavano i fondamenti dello stesso modello della “coesistenza”, argomentando che sarebbe stato errato “legittimare” il segreto bancario e l’anonimato fiscale e consentire che parte dei redditi fosse sottratta al “naturale” regime di tassazione dello Stato di residenza, per essere tassata a un’aliquota generalmente più bassa, ma in alcuni casi più elevata, rispetto al regime previsto dallo Stato di residenza.

Molti altri Stati membri condividevano queste critiche, ma avendo già accettato il modello della coesistenza, continuavano a ritenerlo un compromesso soddisfacente rispetto alla posizione dei Paesi con segreto bancario e, soprattutto, rispetto all’alternativa di non raggiungere l’accordo e lasciare le cose come stavano. La trattativa, tuttavia, giunse a un punto di blocco proprio per la solitaria opposizione del Regno Unito.



Dalla “coesistenza” allo scambio di informazioni: la direttiva del 2001.

Al consiglio europeo di Helsinki[33] gli Stati membri hanno ripreso i negoziati sulla base del principio che tutti i cittadini residenti nell’UE dovrebbero pagare le imposte dovute su tutti i redditi da risparmio. Tale principio è stato interpretato nel senso che ogni cittadino europeo deve essere assoggettato al regime fiscale del suo Stato di residenza su tutti i frutti del risparmio, a prescindere dal luogo di detenzione.

Al successivo Consiglio di Santa Maria da Feira del giugno 2000 si è raggiunto un accordo politico circa il sistema dello scambio di informazioni: esso sarebbe stato il sistema finale dell’Unione, mentre il sistema delle ritenute sarebbe stato applicabile solo per un periodo transitorio (sette anni dall’entrata in vigore della direttiva)[34]. Il Lussemburgo, tuttavia, aveva condizionato il passaggio allo scambio di informazioni all’adozione della stessa misura da parte dei Paesi non UE, interpretando in questo senso il concetto di “misure equivalenti”. La svolta decisa a Feira comportava, in ogni caso, un’importante conseguenza: la tassazione del risparmio avrebbe chiaramente seguito il principio della residenza (CEN) [35].

Alla fine del 2000 si è raggiunto l’accordo politico sul contenuto essenziale della direttiva. Nel luglio 2001 la Commissione, sulla base di esso, ha modificato la proposta di direttiva presentando un nuovo testo[36].

La direttiva, che dovrà essere trasposta negli ordinamenti dei singoli Stati membri entro il 1° gennaio 2004, si applica ai redditi percepiti sotto forma di interessi da persone fisiche residenti[37] nell’Unione. Sono considerati interessi, ai sensi dell’art. 6: interessi relativi a crediti di qualsiasi natura; interessi maturati o capitalizzati alla cessione, al rimborso o al riscatto di quote di fondi a capitalizzazione, quando questi abbiano investito direttamente o indirettamente oltre il 40% del loro attivo in crediti di qualsiasi natura.

Il pagamento di interessi a favore delle persone giuridiche esula, quindi, dal campo di applicazione della direttiva. Vi rientrano, tuttavia, gli interessi transfrontalieri corrisposti a imprenditori individuali, al fine di non imporre oneri amministrativi eccessivi per gli agenti pagatori. E’ al contempo previsto che gli imprenditori individuali possano evitare il pagamento della ritenuta sugli interessi percepiti nell’esercizio dell’impresa, attraverso la comunicazione di appropriate informazioni, oppure mediante la presentazione un certificato rilasciato dal proprio Stato di residenza.

Lo strumento prescelto per il conseguimento dell’obiettivo di consentire la tassazione effettiva dei redditi percepiti sotto forma di interesse da persone fisiche residenti negli Stati membri è, come detto, lo scambio automatico delle informazioni. In particolare, l’intermediario finanziario residente in uno Stato membro che paga gli interessi ad un soggetto residente in un paese dell’Unione (paying agent), ha l’obbligo di determinare l’identità e la residenza del percettore dell’interesse (beneficiario effettivo) e di comunicare queste informazioni alle autorità competenti del suo Stato. Quest’ultimo trasferisce a sua volta automaticamente le informazioni allo Stato membro di residenza del beneficiario effettivo.

Riguardo al livello della ritenuta, il compromesso raggiunto prevede un’aliquota del 15% per il periodo iniziale[38] e il successivo innalzamento al 20%. Viene, inoltre, sancito che la ritenuta non libera il contribuente dagli obblighi fiscali verso il suo Paese di residenza. Quest’ultimo è a sua volta obbligato ad eliminare ogni forma di doppia imposizione derivante dall’applicazione della ritenuta, attraverso il meccanismo del credito d’imposta.

Circa la ripartizione del gettito (revenue sharing), all’art. 12 è stabilito che il 75% del gettito debba affluire agli Stati di residenza del beneficiario finale e il restante venga trattenuto dallo Stato che ha effettuato il prelievo. Viene anche razionalizzato il sistema di esenzione dalla ritenuta per richiesta del risparmiatore (voluntary disclosure).

La direttiva, recepisce, infine, una clausola di salvaguardia (grand-fathering) che, accogliendo le preoccupazioni inglesi su possibili turbative sul mercato degli eurobonds, esenta dal suo ambito di applicazione quelli emessi fino al 1° marzo 2001[39].

Una volta raggiunto l’accordo sul contenuto della direttiva, sono state avviate le discussioni con i Paesi terzi. Gli Stati Uniti sono disponibili a adottare misure equivalenti sul fronte dello scambio di informazioni. Gli altri Stati contattati dalle istituzioni comunitarie (Svizzera, Liechtenstein, Monaco, Andorra, San Marino) hanno dichiarato la loro disponibilità a adottare misure equivalenti sul fronte delle ritenute, sostanzialmente allineandosi alla posizione della Svizzera[40]. Esiste, però un punto di fondamentale disaccordo, su cui non vi è alcuna disponibilità: il passaggio allo scambio automatico di informazioni. Non vi è disponibilità neppure sulla previsione di uno scambio di informazioni a richiesta, sulla base del modello elaborato dall’OCSE sullo scambio di informazioni in materia fiscale.

Di fronte alla ferma opposizione della Svizzera, il Lussemburgo, l’Austria e il Belgio hanno rimesso in discussione le conclusioni di Feira, dichiarandosi indisponibili a passare dalla ritenuta allo scambio di informazioni a una data prefissata, se anche la Svizzera e gli altri Paesi non si fossero impegnati a fare altrettanto. Il compromesso raggiunto prevede che il sistema della ritenuta potrà sopravvivere anche dopo i primi sei anni di applicazione (cioè, a partire dal 2011), ma il livello della ritenuta sarà portato al 35% (come proposto dalla Svizzera). Il regime definitivo verrà, pertanto, adottato solo quando gli Stati Uniti e gli altri Paesi aderiranno allo scambio di informazioni sulla base del modello OCSE.

In sostanza, lo scambio di informazioni rimane come soluzione di principio a lungo termine, ma operativamente condizionata alla sua adozione da parte di paesi terzi. Altra conseguenza è che la coesistenza con il regime della ritenuta non trova più una scadenza temporale prefissata. La circostanza che l’aliquota salirà al 35% a partire dal 2011 costituisce, tuttavia, congiuntamente alla voluntary disclosure, un importante incentivo al passaggio al sistema dell’informazione, su base appunto volontaria. In effetti, l’aliquota del 35% a regime rappresenta un livello “alto”, sia rispetto alla tassazione effettiva, sia rispetto alle posizioni negoziali espresse all’inizio delle discussioni.

La direttiva presenta alcuni importanti limiti. In primo luogo, la sua entrata in vigore è molto ritardata rispetto ai disegni iniziali. La clausola di salvaguardia sui titoli obbligazionari ne rallenterà, infatti, l’applicazione effettiva, che sarà completa solo quando tutti i titoli preesistenti saranno estinti; nella transizione, i mercati saranno di conseguenza segmentati tra vecchie e nuove emissioni. L’applicazione ai soli interessi costituisce, inoltre, una limitazione molto seria, in quanto, tutti i prodotti finanziari più innovativi e quelli in cui prevale la componente reddituale capital gain o dividendo resteranno esclusi dal suo campo di applicazione: ciò potrebbe incentivare gli operatori a trasformare gli interessi in plusvalenze al fine di ottenere un trattamento fiscale più favorevole.

Anche l’accordo sugli organismi di investimento collettivo non si sottrae a critiche, proprio a causa della scelta di restringere il campo di applicazione della direttiva ai soli interessi. L’art. 6 prevede, infatti, il cosiddetto look-through: i redditi derivanti dalla partecipazione all’organismo d’investimento sono soggetti alla direttiva se la quota attribuibile agli interessi supera il 40% (cioè, se l’investimento in titoli di credito supera il 40% dell’investimento complessivo). Gli Stati membri potranno anche adottare come regola de minimis l’esclusione dal campo di applicazione della direttiva per gli organismi che detengano in titoli di credito meno del 15% del loro attivo: ai fondi basterà collocarsi immediatamente al di sotto della soglia prevista per ottenere l’esenzione. Evidentemente si creeranno segmentazioni di mercato. D’altra parte, che la soluzione prospettata sia insoddisfacente e provvisoria lo testimonia la stessa direttiva, quando stabilisce che dal 2011 la soglia del 40% sarà ridotta al 25%.

La direttiva, in definitiva, non elimina del tutto il rischio di concorrenza fiscale tra gli Stati membri[41], in quanto sposta i termini della competizione tra i paesi dell’UE nel campo della tassazione dei residenti[42].

Il successo di questo modello di tassazione dipenderà in larga parte dall’efficacia dello scambio di informazioni tra Amministrazioni[43]. In effetti, nell’esperienza delle Amministrazioni finanziarie, lo scambio di informazioni come strumento di contrasto all’evasione fiscale si è rivelato efficace solo nei casi in cui amministrazioni di diversi Paesi avevano entrambe interesse ad avere informazioni su uno specifico contribuente. Lo scambio di informazioni previsto dalla direttiva, operando automaticamente, dovrebbe eliminare tali inconvenienti.

Luigi Stefanucci



leggefiscofinanza
00giovedì 6 gennaio 2005 01:18
[1] Cfr. F. Lapecorella, “Il dibattito sulla tassazione del risparmio nell’Unione Europea: dalla ritenuta armonizzata allo scambio di informazioni”, in Atti del convegno di studi I cento giorni e oltre: verso una rifondazione fisco-economia?, Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università di Bari, allegato alla rivista Il fisco, 2002.

[2] Intesa in un’accezione ampia tale da comprendere non solo la tassazione dei frutti dell’investimento, il livello di imposizione ma anche agli oneri di tipo amministrativo che gravano sugli operatori finanziari. Inoltre secondo l’opinione di Tagi, per un’efficiente allocazione delle risorse mobiliari è necessario che i costi siano i più bassi possibili, cfr. G. TagI, “La tassazione delle rendite di capitale è ancora attuale?”, in Banche e banchieri, n. 1, 2001.

[3] Cfr. V. Pontolillo, “La tassazione del risparmio e l’integrazione monetaria europea”, in Economia italiana, Banca di Roma, 1999, 1, p. 123.

[4] Cfr. A. Di Majo, “Alcuni elementi per una riforma della tassazione delle attività finanziarie”, in “La tassazione delle attività finanziarie”, a cura di G. Muraro e N. Sartor, 1995, p. 190; M. C. Panzeri, “La nuova fiscalità del risparmio: razionalizzazione e prospettive”, in Rassegna tributaria, n. 6, 1998, p. 1471; V. Ceriani, “Tendenze internazionali nella tassazione del risparmio”, in Rassegna Tributaria, n. 4, 2004.

[5] Per un esame critico degli effetti dell’imposta “generale” sui redditi in questo senso, cfr. S. Steve, “Lezioni di scienza delle finanze”, Padova, 1976.

[6] Non tutti gli Stati membri dell’UE, com’è noto, hanno aderito completamente all’UME, riservandosi di accedervi in un secondo momento. E’ questo il caso del Regno Unito, che non ha ancora adottato la moneta unica europea, l’euro. L’UME è, in tal senso, un tipico esempio della cd. “Europa a due velocità”, concetto che trova riscontro anche nel recente trattato costituzionale europeo.

[7] Cfr. G. Tremonti, “Tassazione delle attività finanziarie e libera circolazione dei capitali”, in “La tassazione delle attività finanziarie”, a cura di G. Muraro e N. Sartor, 1995, p.179-180; A. Di Majo, cit., 1995.

[8] Cfr. G. Tremonti, cit., 1995.

[9] Come ulteriore causa, giuridica, del fallimento delle proposte europee in materia di tassazione del risparmio è la regola dell’unanimità dei consensi.

[10] Cfr. G. TremontI, cit., 1995, p. 180.

[11] L’eliminazione delle barriere fisiche e fiscali, l’introduzione della moneta unica, la libera circolazione dei fattori produttivi (lavoro, capitali, merci) sono aspetti che accomunano l’Unione Europea con la situazione degli USA e che, secondo gli autori, ne giustificano la comparazione. Cfr. V. Tanzi, H. H. Zee, “Consequences of the economic and Monetary Union for the coordination of tax systems in the European Union: lessons from the U.S. experience”, IMF Working papers, August 1998.

[12] Cfr. V. Tanzi, H. H. Zee, cit., 1998, p. 5.

[13] Cfr. V. Tanzi , H. H. Zee, cit., 1998, p. 21: “All these factors suggest that the need for exlicit coordination will likely be stronger in the EU than in the United States ”. Nello stesso senso, V. Pontolillo, cit., 1999, p. 124.

[14] La recente direttiva sugli interessi fa proprio questo orientamento, ponendo come base della tassazione transfrontaliera degli interessi il sistema dello scambio di informazioni. V. infra, § 2.3. di questo capitolo.

[15] Cfr. G. Tremonti, “Il sistema fiscale europeo: un’analisi istituzionale”, in Le imposte del 1992, a cura di A. Majocchi e G. Tremonti, p. 51.

[16] Si tratta di un’istituzione chiaramente ispirata alla struttura e alle modalità di funzionamento del WTO (World Trade Organization) e dell’IMF (International Monetary Fund) che potrebbe operare al loro interno con finalità proprie e di coordinamento fiscale internazionale. La proposta di Tanzi, non ha tuttavia (ancora) raggiunto la fase della vestizione politica, rimanendo, ad oggi, una soluzione accademica. Cfr. V. Tanzi, “Globalizzazione e sistemi fiscali”, Banca Etruria, 2002, p. 108.

[17] Cfr. il recente rapporto “Towards Global Tax Cooperation. Progress in Identifying and Eliminating Harmful Tax Practices”, in cui sono prospettate delle misure di contrasto alla concorrenza fiscale dannosa.

[18] COM (89) 60 def.

[19] In particolare, forte è stata l’opposizione del Lussemburgo.

[20] Cfr. V. Pontolillo, cit., 1999, p. 136.

[21] La perdita di gettito avrebbe in tal senso inasprito il trattamento fiscale dei redditi meno mobili, in primo luogo quelli da lavoro, con effetti negativi dal punto di vista dell’equità tributaria. Cfr. V. Pontolillo, cit., 1999, p. 136.

[22] Il Consiglio ECOFIN è il Consiglio composto dai Ministri economici europei.

[23] COM (9[SM=g27989] 295 def.

[24] E’ opportuno rilevare che nel 1989 il Mercato Unico non esisteva ancora.

[25] Cfr. M. Monti, “The climate is changing”, in “EC Tax Review”, n. 1, 1998.

[26] Cfr. V. Pontolillo, cit., 1999, p. 142.

[27] Questi ultimi erano, tipicamente quelli con segreto bancario: Lussemburgo, Austria, Belgio, Portogallo, Grecia.

[28] Questo termine è stato fonte di equivoci durante la discussione della direttiva. Infatti, nella terminologia anglosassone per paying agent si intende il primo degli intermediari, quello che effettua il primo pagamento per conto dell’emittente. Individuare questo come titolare degli obblighi della direttiva avrebbe significato porre a suo carico il compito di ripercorrere tutta la catena di pagamenti, identificando tutti i successivi passaggi fino al beneficiario finale. In sostanza, non sarebbe stato molto diverso dal porre gli adempimenti a carico dell’emittente (debitore): si sarebbe eliminato solo il primo passaggio.

[29] La stessa Commissione Europea era consapevole di tale possibilità, considerando indispensabile accompagnare l’operatività della direttiva alla stipulazione di accordi con i principali Paesi extraUE (soprattutto Usa e Svizzera), a cui estendere le previsioni comunitarie. Cfr. V. Pontolillo, cit., 1999, p. 143.

[30] Gli Stati interessati ad applicare la ritenuta si dichiararono, in principio, non contrari a discutere una forma di revenue sharing, ma sollevarono obiezioni su un altro aspetto della direttiva. Era previsto che il risparmiatore avrebbe potuto evitare la ritenuta se avesse scelto di dichiarare gli interessi al fisco del suo Stato di residenza (voluntary disclosure). La procedura era però giudicata complessa e molto costosa dal punto di vista amministrativo.

[31] Era però difficile concedere l’esenzione agli eurobonds, data la difficoltà di individuare una definizione precisa degli stessi.

[32] Queste clausole prevedevano la possibilità per il detentore di chiedere all’emittente il rimborso delle eventuali ritenute alla fonte che fossero state introdotte successivamente all’emissione. Ad essa si accompagnava l’alternativa, per l’emittente, di rimborsare anticipatamente l’intera emissione alla pari. Dato il disallineamento rispetto ai prezzi di mercato, si sarebbero potute determinare forti minusvalenze per i detentori.

[33] Dicembre 1999.

[34] Solo Austria, Belgio e Lussemburgo annunciarono l’intenzione di applicare il sistema della ritenuta nel periodo transitorio. Tutti gli altri Stati membri dichiararono di optare per lo scambio di informazioni. Anche gli Stati in fase di accesso all’UE avrebbero dovuto adottare lo scambio di informazioni.

[35] Cfr. G. Ancidoni, “La proposta di direttiva comunitaria e le prospettive della fiscalità del risparmio”, Assiom, Milano, 6 giugno 2001.

[36] COM (2001) 400 def.

[37] Il cd. beneficiario effettivo, previsto all’art. 2.

[38] I primi 3 anni, dal 2005 al 2008.

[39] Per garantire la parità di trattamento, l’esenzione è stata estesa a tutti i titoli obbligazionari negoziabili. Cfr. l’art. 15 della direttiva.

[40] I punti sui quali vi è accordo riguardano: l’imposizione della ritenuta sugli interessi percepiti da residenti UE sulla base del principio dell’agente pagatore; revenue sharing con i paesi di residenza; accettazione della voluntary disclosure; disponibilità a fornire informazioni su richiesta in casi di reato fiscale, sulla base del principio della “doppia incriminazione”(entrambi gli ordinamenti devono configurare il comportamento come illecito penale).

[41] Consolidata è l’opinione secondo cui essa sia fonte di inefficienze allocative.

[42] Cfr. M. C. Panzeri, “La riforma della tassazione del risparmio: criteri di delega ed effetti sul sistema della finanza”, in Diritto e pratica tributaria, I, 2002 p. 704.

[43] Cfr. F. Lapecorella, cit., 2002, p. 293.
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